Lettere dal fronte: le parole che trascendono il tempo - VanityClass

2022-05-29 03:08:31 By : Ms. Monica Pan

L’invasione da parte della Russia di Vladimir Putin nei territori dell’Ucraina continua. Come raccontano le migliaia di condivisioni in streaming, social media, video, interviste e lettere digitali.

Le tesi e gli scambi di lettere, telefonate e comunicazioni trapelate, decretate e dichiarate sono ogni giorno più numerose.

Con questa premessa, il conflitto si espande colpendo in maniera geopolitica, economica anche altri Stati europei come la Polonia, lasciata a corto di gas, con l’intenzione, forse, di procedere anche in territori come Moldavia e resto d’Europa.

Tuttavia, mentre la volontà politica ucraina è di entrare celermente nella NATO e il resto dei membri discutono, fra incertezze della Cina e condanne all’unisono del gruppo occidentale e interventi della Turchia, sul campo la guerra imperversa.

Non solo nella capitale Kiev.

Città distrutte, violate come le membra delle carni di donne seviziate. 

Un conflitto che qualcuno intende come preludio della Terza Guerra Mondiale. (E che Lassù ce ne scampino)

Resa così intrinsecamente più odiosa.

La Russia di Putin invia altre milizie, il popolo ucraino cede, poi torna e resiste, con enorme coraggio. Un continuo inasprirsi di sanzioni, dialoghi di diplomazia errati, in mezzo a un susseguirsi di immagini , e di immagini di quello stesso coraggio di fronte al quale non si può, né si riesce a restare indifferenti.

Nei primi giorni, a distanza di più di un mese da ora, mentre salivano a 6000 gli arrestati russi , rei di aver manifestato pubblicamente il loro no alla guerra, e le sanzioni, si provavano ad intavolare discorsi di pace a Gomel. A seguire, si contavano, solo a inizio marzo, ben 15000 imprigionati.

Straordinaria e straziante è stata la forza dell’anziana Yelena Osipova, ottantenne attivista e artista russa ebrea, deportata da Leningrado, sopravvissuta all’assedio nazista. In una fredda sera, caldeggiata dalla folla dietro di lei, in strada, con indosso un mesto cappotto grigio e una grande sciarpa a scacchi e un cappello a scaldarla, teneva in mano un cartello che recitava:

“Soldato, lascia cadere la tua arma e sarai un vero eroe!”

Così, con il potere della parola e della gentilezza , nonché della fermezza, si è messa a manifestare pubblicamente a San Pietroburgo.

Lo sgomento , riecheggiato all’unisono mondiale, di fronte a un simile arresto, non si è fatto attendere.

Inconciliabile con una circostanziale (funzionale? n.d.r.) dimenticanza è anche l’urlo disperato dei figli di una donna russa arrestata per aver portato dei fiori all’Ambasciata Ucraina dopo le stragi di Kharkiv. 

Innumerevoli altre forme di proteste si sono susseguite in tutta la grande patria del satrapo. 

Lacrime che scendono e solcano il viso, guardando video di soldati straziati, corpi dilaniati fra bagagli, perfetta trasposizione di un viaggio.

A volte fortunoso, culminato in un luogo più sicuro, e a volte intrapreso, suo malgrado, verso una meta non più terrena. Non è possibile non pensare a quel trolley grigio rimasto in piedi, come unica cosa non dilaniata della famiglia in fuga da Irpin.

Oltre a sacchi arrabattati e bagagli, si mescolano, più veloci delle loro potenti trasposizioni futuriste, treni, auto, camion, carri armati. Ma anche passeggini e giochi, lasciati dai piccoli bimbi dei confini per i loro nuovi amichetti tristi in arrivo. 

Inimmaginabile lo scenario di chi ha vissuto quei momenti, quel dramma sulla pelle; quella privazione coraggiosa di chi, rischiando tutto, ha salvato e continua a salvare i propri animali e quelli rimasti soli.

Lettere, o per meglio dire, lasciti della devozione animale all’uomo e dell’uomo che ringrazia e si fa devoto all’animale.

C’erano e ci sono anche loro a emozionare noi, in questa parte più fortunata di globo terrestre: quando erano rimasti lì, noncuranti della paura, in attesa dei loro amati umani scomparsi. Animali che annientano, anch’essi, il cuore di chi ha pianto davanti ai loro simili rimasti, anch’essi anime innocenti, vittime di una strage –oggi– ancor più inqualificabile. 

Capi di Stato e Ambasciatori che rievocano i due blocchi di divisione del mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale , la decisione di inviare armi all’esercito in Ucraina.

Fattore, questo, reso più complesso dalle discussioni interne e dalle obiezioni di coscienza dei

“pa(-n-)ci(-ol-)fisti”. (Neologismi, non vi temo! n.d.r): quell’anomala razza di pacifisti da tastiera in panciolle. Coloro che non si sono nemmeno prodigati a portare un pacco di carne in scatola o beni di prima necessità in un punto di ritrovo del Consolato e delle numerose e prodi Associazioni umanitarie scese in campo. 

No, sia chiaro : la mia opinione non è in alcun caso a favore del conflitto. Io credo nel potere del dialogo , benché consapevole della maggior potenzialità dell’industria bellica . Che va a scapito di democrazie, economie, e, più che mai nel profondo, a scapito dell’umanità . E ci sono stati giorni, in questi mesi, quando scrivere provocava in me dolore affannoso, durante i quali mi sono posta più volte la domanda: “ma chi vuole -realmente- la pace?”

L’abuso da parte di uno Stato di invasione militare in territorio vicino, definito da confini di un Paese con propria Costituzione e sovranità nazionale è esecrabile.

Vantarsi, addirittura dal Satellite russo, con tanto di bandiera issata nello spazio, lascia trasparire la presunzione e, forse, anche la prepotenza.

Ogni parola di attacco che inneggi a favore del perpetrarsi di questo scempio è da condannare.

Questo è il fondamento di base, ma tutto ciò che è stato mosso, quei fili dall’alto toccati –forse– in modo non ottimale, è altresì un vortice di crescente dolore. 

Dove troppi, se non tutti, stiamo perdendo qualcosa di noi :

Le ripercussioni di questi due mesi di razzìe, bombardamenti, proteste, manifestazioni, sono sempre più pesanti psicologicamente per le popolazioni in fuga, divise, raccolte davanti alle immagini della sofferenza dei bambini e dei civili.

E per chi guarda. Attonito, sbigottito, perso. Quasi nuovamente estraniato.

Al punto di fingere di barcamenarsi fra ordinaria costrizione alla vita (quasi) di sempre e la catastrofica rassegna mentale che si ripercuote nei discorsi da bar (e bar social).

Ebbene, d’un tratto non siamo più solo quasi tutti esperti virologi, ma nella tuttologia imperante, anche grandi strateghi militari ed economisti.   Tuttavia, nelle stesse ore in cui in Ucraina si lanciavano missili, bombe, si distruggevano il municipio di Kharkiv, città chiave nelle mire dei poteri di Mosca, ospedali pediatrici, il Teatro di Mariupol, città martire come la zona di Bucha, territorio dell’ultima, tremenda lezione non imparata dalla storia sull’abominio .

Aumentano le esclusioni dalle manifestazioni sportive della Confederazione Russa e della Bielorussa. Si evitano giornalisti russi, troppo di parte, secondo il “blocco” pro Ucraina. Si mettono al bando libri e seminari, come un novello indice dell’imperante, quanto fuorviante e pericolosa cancel culture. A scapito della ricerca di dialogo, pare si inaspriscono i toni. Ma dal Cremlino negano vi sia in atto un’aggressione da parte russa.

Per tornare al mio personale punto di vista precedente , se è vero che dove qualcuno governa, c’è chi segue e, da ultimo, chi esegue, c’è anche chi lancia messaggi di pace molto diretti. 

Un segno forte a supporto, ammirazione verso chi ha il coraggio di combattere CON la pace, non PER la pace.  Sottigliezze di un ossimoro di semplice leggibilità . 

Alla Conferenza sul disarmo tenutasi a Ginevra, quasi tutti i partecipanti delle delegazion i, in presenza, hanno boicottato il messaggio -registrato- del Ministro degli Esteri russo Lavrov. La sua versione era quella di opposizione alle “misure russe” troppo dure, facendo riferimento al divieto di sorvolare i cieli dei Paesi dell’Unione Europea. Ha segnato una pagina di storia, magnifica nella sua forza e nella forza della fragilità di equilibri quanto di resilienza , la presenza in Parlamento Europeo della bandiera dell’Ucraina.

Tantissimi presenti hanno scelto di indossare una maglia o lo stendardo blu e giallo, come a dare pieno sostegno al popolo invaso e sotto attacco. 

Raggiunto e stabilito il collegamento remoto con il Presidente Ucraino Zelensky, tutti si sono alzati in piedi, virtualmente stretti in un lungo applauso .

Quello dell’Europa che si apre a difesa di un uomo che combatte, incita, incita, convince e si commuove. Un Presidente quasi per caso, per alcuni, ben consapevole che, nonostante il delicato momento decisionale per la nostra nuova realtà a venire, la sua Ucraina, come il suo popolo, non sono soli. 

Commossa anche Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea.

La presenza, all’inizio di questo mese di Roberta Metsola, prima leader dell’UE ad aver parlato direttamente dallo spazio diplomatico di Kiev insieme al Presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ha significato la grande vicinanza al popolo ucraino sotto assedio. 

“La resistenza e il coraggio degli ucraini hanno ispirato il mondo. Siamo con voi”,

ha riportato anche tramite Twitter.

Quella dei soldati sacrificatisi, dei tanti cittadini che hanno opposto resistenza pacifica. Delle donne, civili, che si battono prima per portare in salvo i figli e, in seguito, si arruolano volontariamente per sconfiggere l’invasore.

O di quei giovanissimi soldati russi che piangono al telefono con le loro madri, scaldati da un tè caldo offerto dai civili ucraini. Forse, dirà e asserirà più d’uno, è mera propaganda per imbonire l’opinione pubblica.

Per molti, come me, è il meccanismo chiave per volgere verso il termine dell’orrore. L’imbocco per la via della distensione, dell’accoglienza e della rieducazione alla -realmente- pacifica convivenza.

(Discutibile, tuttavia, la scelta di inviare foto dei figli dilaniati come prova degli effetti dell’arruolamento di ragazzini poco più che ventenni da parte degli ucraini ai russi, per convincere la reticenza della mendace propaganda moscovita.)

Si aggiunge in quelle fila di coraggiosi anche Igor Volobuev, l’ex vicepresidente di Gazprombank, nato in una regione dell’Ucraina quando ancora faceva parte dell’URSS.

Lui, così vicino ai russi di Putin, ha raccontato che tornare a fianco dell’Ucraina e dei suoi cittadini è una sorta di “mea culpa”, dopo le lunghe torture verso i famigliari e l’allontanamento da parte di molti suoi “ex amici” sovietici. 

Tuttavia dalle sue parole, trascritte dal direttore dell’Insider, giornale indipendente (uno fra i pochi ancora presenti), emerge anche una seconda realtà che affronta, non senza sdegno, un fatto sul quale val bene ragionare:

Per quanto un leader avvii una guerra, sono i singoli a commettere crimini efferati sul campo. Per lui, “la cosiddetta operazione militare speciale russa in Ucraina altro non è che un crimine da parte di Putin, del governo russo e, di fatto, del popolo russo. Perché non è Putin che uccide gli ucraini qui, non è Putin che ruba i water, non è Putin che violenta le donne. Questo è il popolo russo. E anch’io, sebbene ucraino di nazionalità, ne sono responsabile”

Numerosissimi gli eventi, le manifestazioni e i personaggi famosi schieratisi apertamente contro la “guerra di Putin”. Dalla sfilata silenziosa di Re Giorgio Armani al silenzio della caotica notte (brava) degli Oscar dominati dallo schiaffo e dagli insulti di Will Smith a Chris Rock.

Non ultimi, gli ormai universalmente celebrati Måneskin in concerto, prima al Coachella Festival e poi, di ritorno, all’Arena di Verona, dove Damiano, leader del gruppo, dopo il “f**k Putin” americano, ha citato con la bandiera ucraina in mano il celebre discorso all’umanità de “Il Grande Dittatore” di Charlie Chaplin:

Ci sono dei momenti in cui dobbiamo scendere dalla sedia del privilegio e usare quel privilegio per aiutare chi non ce l’ha

Riavvolgendo il nostro nastro visivo/uditivo/emozionale di video, social media, fotogrammi, (web)giornali e fotografie di un popolo che cerca in ogni modo di resistere è impossibile non rimanere fermi davanti a queste immagini, forti espressioni di coraggio.

Di posizione ed esposizione coraggiosa.

Di umana empatia e ammirazione.

Tali da comprendere, forse più da vicino, cosa significavano davvero le parole “Resistenza” di tanti dissidenti contro i totalitarismi, come gli italiani, molti partigiani.

Bypassando ogni recente critica, onorando la recente data commemorativa della Liberazione della nostra Italia, riprendo le parole del Presidente della nostra amata e a tratti disastrata Repubblica, Sergio Mattarella:

Il traguardo di umanità a cui è necessario tendere resta la pace. Ben lo sanno i giovani, ai quali la Repubblica, in questi 76 anni, ha saputo assicurare la pace, che è inscindibilmente connessa alla libertà, al diritto, alla giustizia, allo sviluppo nel benessere dei nostri paesi e delle nostre città

Se, riferendomi alle parole da lui menzionate di fronte all’Altare della Patria, “la resistenza è opporsi all’invasione straniera”, faccio un tuffo nel dolore (grazie Laura – Pausini, “Invece no“), analizzo anche gli insegnamenti di mio nonno, Federico C, Partigiano della Resistenza Italiana, comprendo meglio ciò che ripeteva.

Egli sosteneva che “la guerra la dovrebbe fare solo chi la vuole sulla sua pelle”.

Viaggio nella mia memoria, ripesco i suoi racconti vividi, le parole di chi è rimasto, con lui. Di coloro che hanno combattuto, come lui. Quegli uomini armati un po’ per caso. Soldati-non soldati. E quelli che lo hanno ringraziato. 

Resistenti, resilienti, termini da ribadire. Essi hanno scelto di essere in ogni caso anti-fascisti e contro l’oppressore.

Di loro, nessuno vorrebbe vedere che i sacrifici delle loro mani, amputate, dei volti segnati nelle rughe del volto, siano vanificati, di nuovo, dal delirio di onnipotenza dei singoli. 

Mi trovo, di nuovo, a riflettere ad alcune delle lettere dal fronte.

Questo è il titolo scelto per questo lungo articolo di approfondimento.

La comunicazione in tempi e venti di guerra è stata al centro di plurime mostre e rientra regolarmente, tanto in letteratura quanto in ambito museale . Spesso dimenticata o vista un po’ “alla leggera”, rappresenta in realtà uno spezzato sociologico unico. O, per meglio dire, un testamento spirituale che accompagna e accomuna uomini in balia di eventi dolorosi e preghiere per un futuro migliore, di pace, nel corso di numerosi anni, usi e costumi e società di distanza. 

Nondimeno, queste epistole sono un filo di unione fra passato e futuro. 

Anzi, si può asserire si tratti di un insieme di vissuto, subìto e ricordato . 

A partire, soprattutto, dalla Grande Guerra, l’invio e l’arrivo della posta rappresentava un momento fondamentale, un sollievo per i soldati al fronte. Attraverso le lettere si tenevano in contatto non solo con i familiari, ma anche con il mondo “normale, ordinario”, nel quale speravano di tornare. Le lettere dei soldati dal fronte sono un’eloquente testimonianza di cosa fu la grande Guerra e in quale maniera segnò la coscienza collettiva.

Quei fogli di carta, spesso stropicciati e ingialliti, rappresentavano per i soldati un mondo: casa, affetti e speranza di poter riabbracciare quanto di più caro avevano. 

Ecco qui che emergono parole scritte di figli, di mariti e fidanzati alle promesse spose, alle mogli che non sapevano se avrebbero rivisto i loro amati, ai bambini che lasciavano le famiglie.

E alle mamme, quelle madri che leggevano lettere che iniziavano con frasi come:

(Nemmeno a farlo apposta, ci troviamo prossimi a celebrare ogni mamma, e rendere loro omaggio attraverso la loro forza pare un buon modo per dire “Auguri Mamma“, n.d.r.)

Altre tormentose e vivide parole le troviamo nelle epistole di altri militari. 

Questa non è una delle lettere, bensì una Cartolina Postale del 30 Marzo 1916 dal fronte

«Cara mamma, ieri non ti ho potuto scrivere perché ebbi molto da fare in trincea.

I signori austriaci tirarono i soliti “ta-pum” con i soliti effetti di far ridere molto. Però stanotte nel tornare dalla battaglia  ho passato qualche momento brutto, causa una orribile tormenta. Ma ora è più nulla. Attendevo da due giorni vostre lettere ma non ho ancora ricevuto nulla. La posta oggi non è ancora giunta; in essa spero che ci sarà qualche cosa. Domani a notte scenderemo a riposo. Allora ti scriverò lunghissime lettere. Quando scrivete, scrivete molto ma molto; ditemi tutto quello che accade costaggiù nella nostra Italia per la quale combattiamo…

[…] Scrivetemi molto perché desidero di leggere molto. Questa notte sono stato per la prima volta in trincea. Te lo figuri, neh, tuo figlio davanti al nemico di notte mentre infuria la tormenta? eppure ti dico che non ho avuto freddo; e poi per la grandezza d’Italia sapremo sopportare ben altre cose…»

Il cuore si stringe di fronte alla richiesta di questo figlio, l’aspirante ufficiale di fanteria Sisto Monti Buzzetti, dislocato fra le trincee di Col di Lana, di scrivere, e scrivere molto, nel tentativo di tranquillizzare la famiglia e, chissà, forse anche se stesso .

Toccante anche lo spirito di orgoglio per una Nazione, l’Italia, che oggi non riusciamo più a rispettare nella sua essenza più profonda.

«Cara Lucia, amore mio, non sai quanto mi manchi. È strano scrivere questa lettera, mi fa pensare a te e a tutti quei bellissimi momenti che abbiamo passato insieme. Se leggerai questa lettera sarà perché io sarò morto. Ho deciso di scriverti una lettera come ultimo saluto e ho chiesto al colonnello di consegnartela solo nel momento della mia morte. Sapessi quanto è lunga la notte qui, non passa mai…. Il dolore alla gamba è atroce, senza tregua, sento una lama conficcata nella carne. Ma quale carne poi? Non ho più le mie gambe, le ho lasciate sulla montagna quella sera, strappate come stracci… Non tornerò a casa, lo so. Di me resterà solo questa lettera per te. Portami nel tuo cuore amore mio, per sempre. Io porterò con me i tuoi occhi e quelli di un figlio che non conoscerò mai…»

La firma riporta solo “il tuo Fernando”.

Fra le cartoline e le lettere che ho trovato, questa è la più straziante, a mio modesto e onesto parere. Si tratta della più rappresentativa di ciò che la guerra muta in un uomo , lo smarrimento sulle motivazioni per le quali combattere.

Infine, come la guerra influisce sull’esistenza più o meno precaria di un uomo mandato alle armi. 

Qui la situazione è terribile, non si può vivere e ogni giorno le bombe sono boati che sgretolano un’intera parte del mondo. La guerra è spietata sotto ogni aspetto : molti miei compagni rimpiangono giorno e notte di essersi allontanati dalle proprie famiglie per abbandonarsi alla presunta morte. Io però non mi arrendo, spero ancora di farcela e di uscire vivo da questo inferno.Voi non potete nemmeno immaginare quanto io soffra ogni ora per quello che vedo e sento. 

Ogni mattina mi alzo prestissimo al suono delle fucilate, tra i defunti della trincea e le persone morenti che esalano gli ultimi respiri pregando il buon Dio nell’attesa di trovare la pace . Quando arriva il mio turno provo un dolore e una tristezza infinita, quasi come un fuoco che brucia ogni speranza.

Questi casi sono i più disperati: devi uccidere senza guardare in faccia alcuno, non importa chi ti troverai davanti perché dovrai ugualmente sparare, e farlo quasi con fierezza o passione; dovrai continuare, senza poterti opporre agli ordini, anche se avrai la polvere negli occhi e le lacrime nel cuore.

E in quei momenti sai che stai commettendo del male, ma non puoi fermarti, anche se sei consapevole che chi sta al di là di quel confine è giovane come te e non è colpa sua se indossa una divisa di un altro colore o alza una bandiera diversa dalla tua.

C’è invece chi muore di fame e di stenti, anche perché il cibo è scarso e quel poco che possiamo mettere sotto i denti è rancido. I più deboli muoiono per colpa del freddo che ci tormenta dalla sera al mattino. Le coperte, infatti, sono poche e chi riesce a procurarsele è così avido da non volerle condividere con nessuno.

Alla fine di una settimana abbiamo conquistato o perso solo pochi metri, che ai miei occhi sembrano solo allagati dal caldo sangue innocente di chi ha lottato fino alla fine.

Sono stufo, mia carissima e preziosissima madre, di tutto quello che sta succedendo; qui si sta verificando l’impossibile: morti a destra, morti a sinistra, morti dietro ai miei lenti passi scoraggiati. Ognuno di noi sa che non può in alcun modo tornare indietro e recuperare ciò che è ormai  perduto per sempre: la vita di un amico, di un fratello lontano che ora non può più abbracciare.

Non credevo che sarei mai stato capace di spezzare la vita di un uomo  così velocemente, senza permettere di dare ad entrambi un senso all’orrore della guerra.»

Fra queste lettere di ufficiali e soldati semplici che raccontano lo strazio con la stessa tenerezza di chi tiene sempre una foto delle persone amate nel taschino, non poteva mancare quella di un alto grado dell’Esercito Italiano.

Nondimeno, si tratta di una missiva del Generale Diaz

«Egregio ufficiale, dopo l’episodio della disfatta di Caporetto, guidata dal mio predecessore Cadorna, io e il mio esercito ci siamo resi conto che la situazione sta degenerando. Milioni di soldati sono morti e altri ne moriranno. Perché tutto questo? Persone come noi devono perdere la vita a causa di un conflitto che poteva terminare politicamente in due giorni, senza ricorrere alle armi… I soldati sono in uno stato psicofisico pietoso, non mangiano e non dormono essendo molto provati… Spero che sia comprensivo e che questa guerra finisca al più presto per il bene di tutti noi, ufficiali, tenenti, soldati, perché alla fine siamo tutti uguali.»

In queste lettere si ritrovano frasi universali, benché scritte così tanti anni fa.

Era, questa missiva, datata fra 3 e 5 Novembre 1917, calligrafata dal territorio della “disfatta” di Caporetto, una delle pagine più tragiche della nostra storia italiana. 

Eppure, ogni riferimento, ogni parola, chiudendo gli occhi e immedesimandoci -forzandoci- all’ascolto e all’analisi del contenuto , potrebbe essere la stessa pronunciata da un soldato di oggi:

L’uniforme, come oggi il simpatico e zelante Carabiniere Alessandro del Nucleo Cinofilo in forza all’Ospedale Sacco di Milano per lo studio e la ricerca del Covid attraverso il supporto dei cani mi ha ricordato, nasconde sempre una persona.

La simbolizza come istituzione, la protegge, come tale e come persona, e ci fa sentire protetti.

Con le sue emozioni, il suo cuore, le sue paure.

Aggiungo infine altre parole del giovane militare Ferrazza Natale, numero di matricola 92618, del Distretto di Milano, classe 1916, questa volte testimone e protagonista della Seconda Guerra Mondiale che così scriveva alla giovane moglie:

«Cara Giuseppina io vorrei esserti vicino per farti coraggio in mezzo a tanta paura però tu almeno avrai altre persone che ti fanno compagnia, io invece mi trovo altretanto più grande pericolo e lontano da tutti i miei cari specialmente lontano da te e dalla mia cara piccola tesoruccia Rosa Carla però mi faccio forte aspettando se il Buon Dio vorrà il giorno che possa ritornare fra le vostre braccia.

Adorata, anche tu devi essere forte ed aspettare senza mai stancarti il mio ritorno e durante questa lontananza devi avere il pensiero ed il cuore unito al mio per sofrire e godere i dolori e le gioie ambe due assieme bensì che siamo assai lontano. 

Ti chiedo ancora un favore è se ha te ti sembra un sacrificio sappi farlo: tu devi scrivermi sempre almeno qualche riga ma molto spesso anche se tu non dovessi ricevere mie notizie perché anchio ti scrivo sempre senza mai stancarsi bensì però non ricevo da te, quindi ti supplico fammi questo grande favore se ciai un pò d’amore verso tuo marito che anche lui lotta contro il pericolo ma però ti pensa sempre e non cessa mai d’amarti con questo solo tu mi potrai dare ancora e sempre la forza di resistere per un scopo finale, cioè sino al mio ritorno per non più abbandonarti. »

«…se non ti o scritto … è il perche non potevo, forse tu penserai che io ti abbia dimenticata ma pur troppo ti amo e ti penso e ti o sempre amata e ti faccio sapere che è mio dovere come è un dovere di fare il soldato. Mia cara non pensare se ce troppa lontananza che ci separa senza che ai una persona e un amore lontano che prega per te e attende il momento di potere stringerti fra le sue braccia sempre pregando Iddio che mi faccia la grazia di tornare sano e salvo come prima, sempre con la buona speranza e chredere in Dio che è lui che comanda su di noi io volio che le mie preghiere agiungano a lui comprendermi.

Mio Tesoro pensa quando vedrai il tuo amore ritornare con la penna nera sul capello, allora ti cantero la canzone che si cantava in terra di Rusia, contro la penna ce niente da fare … »]

Il coraggio commuove, smuove, dunque. Quando è ben riposto, con le doverosi attenzioni, perché ci vuole coraggio anche per ammettere di avere paura.

Come quella di coloro che, attualmente, sono presenti sul territorio bellico in qualità di reporter, giornalisti e volontari in missioni umanitarie.

I ragazzi che non mancano di proteggere i loro animali, come il nostro Andrea Cisternino.

Chi, come il gruppo Through The Eyes of a Dog gira docu-film (oltre al ben più celebre ma non meno impegnato Sean Penn) raccontando giornalmente storie di confine. Insieme a loro, si sono aggiunti, anche in operazioni di recupero di civili in fuga, i nostri amici de Il Mercato Solidale fondato da Donato Vallarriello. 

Cronometrando le ore, sperando che in quelle ore le cose migliorino. Raccontando realtà che i media, l’informazione sommaria, la disinformazione e le fake, a volte rischiano di (s)travolgere, 

Fra questi, c’è ancora chi, benché rinchiuso in un bunker, riesce a trovare un sorriso spontaneo. Contagioso.  Parola che ci ha segnato tanto negli ultimi due anni . Durante i quali abbiamo sperato che tornasse ad avere un’accezione, o uno spiraglio verso quello della risata. 

Una di queste stesse persone è un mio caro amico, Paco, che lavora per un programma per La7. 

Lo conosco da ormai molti anni, e nonostante tenda a sminuire il suo lavoro, che ama, lo ammiro da altrettanti. Benché abbia e sottolinei un lato estremamente ironico e divertente nelle imitazioni, io ho sempre trovato in lui un esempio.

Per il suo impegno sul lavoro e come super papà. 

Ed è grazie a lui che scrivo questo pezzo e approfondimento molto personale, che non può che essere un monito nei confronti dell‘assurdità della guerra fra due blocchi ripetuti. 

Rifletto sul futuro dei figli, dei nipoti, dei bambini che resteranno, forse, soli. 

E mi rinfranco nello spirito di fronte al video di un nonno scampato alla prigionia forzosa delle bombe con la famiglia. Unico a poter guidare, con la nipotina in procinto di nascere, ha salvato la mamma e la bimba, che è nata, straordinariamente sana e salva, e che lui culla. 

Un video postato dall’Unicef che condivide anche il celebre attore Hugh Jackman sul suo profilo Facebook.

Lettere non scritte dell’importanza del legame fra nonni e nipoti che non con certezza  conosceranno. 

Quei bambini nati come piccoli miracoli in mezzo alla devastazione. 

Sono, questi, anche quelli che saranno segnati per sempre.

Loro, i piccoli bimbi ucraini. Ma anche i figli inconsapevoli della russofobia.

Ma i piccoli ucraini non sono i soli ai quali si rivolgono queste parole di riflessione a seguire.

Si tratta dei bambini, in qualche modo, dimenticati dal mondo.

Bambini della Siria, della Libia, dello Yemen. 

I piccoli dell’Afghanistan, dove la povertà è ancora, se possibile, più estrema dopo la presa di potere di Kabul, abbandonata dalle truppe americane per direttiva del Presidente USA Joe Biden. Nel frattempo, i Talebani bloccano le evacuazioni dal Paese. 

Poverissimi i bambini Indiani, molti piccoli Russi. Ma non solo. 

Si aggiungono 160 bambini Palestinesi nelle carceri, esposti a malattie, epidemie di Covid-19 , senza  cure accessibili. 

Ci sono anche i tanti piccoli con pericolosissime armi in mano.

I bambini soldato, così li chiamano, ai quali viene garantito attraverso contratti orali, dubbi, e senza lettere alcune scritte, cibo regolare, finanche un salario, in cambio di sopravvivenza. L’aberrazione. 

Succede in Somalia, ma non soltanto. I bambini dell’Uganda, che subisce la più grave crisi di rifugiati su tutto il continente africano. 

Secondo Save The Children, prima dell’attacco missilistico della Russia ai danni dell’Ucraina, erano

già 452 milioni i bambini e le bambine in tutto il mondo che vivono in aree colpite da conflitti, tra questi 200 milioni sono in zone di guerra ad alta intensità di violenze.

 rischiano ogni giorno di essere uccisi o mutilati, reclutati, rapiti, abusati sessualmente, di vedere le loro scuole attaccate o di essere lasciati senza aiuti 

Si parla di un bambino su sei . 

Numeri drammaticamente in ascesa vorticosa, con i milioni di profughi in fuga dal conflitto alle porte dell’Europa. Con loro, si accompagnano altri messaggi, nuova forma di missive dal fronte. 

Ma non mancano, ancora una volta, in assenza di connessioni stabili di internet, le vecchie e care lettere scritte a mano.

Lettere che anche i bambini adottati a distanza scrivono , con poche parole di molto affetto e ringraziamento, ai loro papà e mamme di supporto. 

O quelle dei bimbi che accolgono i loro amici un po’ spaesati nelle classi, che riempiono e si riempiono di colori e immancabili sorrisi e giochi.

Piccoli passi di eccezionale normalità.

Tornando al mio amico Paco, che così risponde alle mie parole di ringraziamento per il coraggio e le notizie dal confine, 

mi piace seguire io corso della storia da vicino . Certo noi occidentali abbiamo perso la misura di ogni cosa , il divertimento è diventato l’unico dio a cui votarsi.

ci sommerge l’età’ dell individualismo ci ha resi delle macchiette

Per concludere, osservando l’immagine qui sopra e da lui scattata nei pressi di una dogana di confine in Ucraina, utilizzata per sua gentile concessione, aggiungo una delle mie lettere al domani, destinate a noi tutti “grandi”:

“Un giorno ci dovremo scusare;

un giorno non lontano glielo dovremo spiegare.

Che la storia ricorda, anche quando la memoria è

che la guerra non insegna e la pace non s’impara

che la pace non s’insegna, ma che in pace ci si vive. 

In guerra s’impara, che in guerra ci si muore.

E per addottrinarsi alla pace e disimparare la

guerra occorre che quella balorda della memoria

si fermi, davanti a un bambino che piange,

la cui madre nel dolore tace,

senza aver commesso alcun dolo.

La balorda dall’ipocrita onta spieghi allora

Com’è che ciò che s’insegna non s’impara

E com’è che chi insegna non impara.

Che non può essere solo interesse d’altri il timore

dell’infante che teme il cammino sul suo stesso

[tratto da “Dal baule della nonna: lettere e letture di ieri, oggi e future”]

Infine, affido, fra le ultime lettere di speranza per una pace che si ricerca, ma per la quale ci si adopera concretamente con scarsi risultati e molte armi, a Mikhail Gorbachev. 

L’ideatore premio Nobel per la pace, della Perestrojka, ha enunciato fra le sue lettere l’importanza della storia da tenere come prezioso trait-d’union del fiume del tempo.

con  che si conservi il legame tra i tempi, che non si interrompa il dialogo tra passato e presente. Conoscere la verità sul passato e trarne delle lezioni per il futuro è necessario per tutti noi in un mondo che cambia. […]  quando la scienza e la ragione non ci possono aiutare, solo una cosa può salvarci: la nostra coscienza. Perciò abbiamo bisogno di un’ecologia dell’anima.”

Torniamo a riaprire i cassetti, riprendere dei fogli e delle semplici penne e scrivere i nostri desideri di pace e le nostre piccole lettere e letterine. Per aggrapparci alla speranza, ancora una volta.

A cura di Veronica Fino 

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