Identità e inquietudine a colloquio con l'antico nell'arte di Giuliano Vangi - la Repubblica

2022-09-03 02:50:12 By : Mr. Olantai Han

Identità, interrogativi, inquietudine. Giuliano Vangi, toscanissimo cittadino del mondo, con scalpello e matita, plasma anatomie di disgregazione dell'animo umano nell'irriverente dinamica espressiva dei corpi. In milleseicento metri quadri, al secondo piano del Mart di Rovereto, una mostra è cenacolo e colloquio tra le arti di scolpire, dipingere, disegnare. Il florilegio di sculture, pitture e disegni di Vangi evolve tra  perle gotiche e rinascimentali. La poetica dello scultore fiorentino è a colloquio con maestri del Trecento e del Rinascimento. Un dialogo tra audacia del cuore e genio delle mani, fuoco dell'ispirazione e maestria. Un labirinto di assonanze e fertili contrappunti. Sconcerto e stupore dei sensi.

Già percepito nei preludi d'ingresso. Un'arcata orizzontale interrompe la linearità delle pareti e si affianca all'esposizione delle prime sculture. Una esedra, in semicerchio su unica tela di trentasei metri, alta duecentrotre centimetri disegnati non dipinti, in tecnica mista, è proscenio di umanità e paesaggi graffiati da una persistente raffica orizzontale. Un cartiglio filante di silenzi taglia figure e nature col rasoio della matita. Impronta senza diaframmi, genesi di scultura. Disegnare per Vangi è germe allo scolpire. Apre la tela un uomo grave, scavato di inquietudine. Ricurvo in una strettoia di incubi, i denti spalancati mordono supplica e riscatto, l'antro dello sconforto è al contempo crogiolo di lacerti di luce che invadono il cammino delle forme. Arcolaio ai filamenti del disegno. Raffiche di tormento e refoli di attesa contagiano ogni figura. In quarantanove passi scorrendo il disegno s'insinua l'interrogativo di una via di uscita. Improvvisa, imprevista la matita disegna un tunnel che gradualmente stringe disperazione e sconforto. Mani strappate sugli occhi, digrigno della bocca congelano il respiro. Un forte contrasto di chiaro scuro, acerbo e imponente, apre ai silenzi del morbo e del destino.  Disegno, è titolo statuario della tela che si affianca a un'altra recente opera, Jolanda ignuda si affaccia di spalle. Acciaio inox, anatomia morbida, ricamata di dettagli, leggerezza di accenti sui rimbalzi cromatici del metallo. E' cammino a un dedalo di stupore e sconcerto.

Ancora corpi ignudi, il disadorno esalta intensità e vibrazione nel legno policromo di Maria Chiara nuda. La girandola di prismi a base triangolare  genera, nell'allestimento di Mario Botta, locanda e intervallo al gesto delle opere esposte. La danza dei prismi di Botta, architetto che ha progettato l'edificio di Rovereto, dal 2002 sede del Mart,  apre tre navate centrali, laica basilica ai corpi di Vangi, contagio di una coreografia magnetica. Identità policroma di bronzo, legno, marmo, avorio, nichel, poesia di volti, seni, mani, occhi, labbra. Nella frapposizione delle armoniose inquietudini e nel respiro degli interrogativi dello scultore. Danza di identità avvalorate dall'improvviso colloquio con l'antico. Il gioco dei prismi offre nicchie semicilindriche dorate a sensualità e lievito della Vergine annunciata nel legno di Tino da Camaino e per lo stesso autore l'attillata energia dei marmi nell'Angelo con devoto inginocchiato. Un segno crudele, vibrante il legno intagliato nel Crocifisso di Giovanni Pisano, un soffio di marmi nell'Angelo e Vergine dell'Annunciazione di Francesco di Valdambrino. L'ardore mistico, celato nello sguardo del Santo monaco di Jacopo della Quercia, la pungente perplessità del Busto in terracotta che le mani di Donatello ritraggono su Niccolò da Uzzano, la sapiente drammaticità di Pietro martire, legno dipinto attribuito da Alfredo Bellandi allo stesso Donatello. Il delicato accento della Figura virile con cartiglio di Agostino di Giovanni. 

Duttile vigore nei tre Studi a penna di Michelangelo Buonarroti, due disegni di figure per una trasfigurazione e un foglio con quattro studi di teste. Vangi e l'antico, è dialogo tra contemporanei, il divario tra secoli dissolve, il colloquio tra arti annulla la polvere della clessidra. "Non è un confronto di bravure, ma di lavorazione. E' un riscontro tra botteghe d'arte -  suggerisce Giuliano Vangi -  nella tensione a innovare contrasti cromatici, intensità plastiche. Penso alla violenza dei toni scuri di Giovanni Pisano, alle invenzioni di Donatello, basti pensare ai panni inzuppati con la cera per il panneggio di Giuditta (non in mostra ndr)". Ed è sul pendolo delle vibrazioni che Vangi respira il dialogo con gli antichi: "Ho accostato il buio intenso dell'ebano nella Figura con mano ai capelli e il grigio forte di nichel e argento in Ragazza con cappotto al biondo dominante di Jacopo della Quercia".

Libertà massima, acutezza tagliente sono i maestri dello scultore. Libertà che si rinnova nell'inquieto marmo bianco statuario di Donna e arbusti, rannicchiata. Labbra strette, mani e ginocchia conserte urlano in fronte ad arbusti divelti, scarnificati. Così come l'Uomo seduto e paesaggio, paesaggio di poliedri ammucchiati e ancorati a un magma di escrescenze. Volti crucciati, in fronte all'habitat di incastri senza vita, germogli di disperazione. Frusta  che invoca reazione, artiglio che graffia indifferenza e impone a non subirsi di sconforto. "In contrapposizione ai nostri giorni, parchi di reazioni e virate di rotta". Alterazione e smarrimento ancor più marcati in Donna nel paesaggio nero. Alluminio e bronzo dipinto  gettano la decomposizione del paesaggio sul solco delle lacrime incise a ferire la guancia, la mano stringe l'inutilità di un panno bianco. Tormento umano e disumanità deflagrano nel marmo statuario di altri recenti lavori. L'antologica del maestro fiorentino spazia su un agile collegamento al nudo femminile degli anni Sessanta, alla Donna nel tubo, un bronzo che imprigiona corpo e viso proiettati verso un non destino, alla aggressività dei bronzi dei primi anni 2000, fino alle turbative immagini scolpite e dipinte di C'era una volta. Supini, attoniti, martoriati, volti e corpi di Vangi mordono il risveglio dei sensi. Irritano, come bellezza pretende. Bellezza sobria e tagliente di forme che tendono, non descrivono. Tendono a un non arrendersi. Energia, vigore, ironia, perplessità, dettato artistico a riattivare anticorpi inerti. "E' la seta della pietra nera, un carezza leggera, sensuale che contrasta la violenza dei cromi e delle espressioni".

Uscendo sulla piazza del Mart, Vangi invita ad accarezzare le tre statue attorno alla fontana. Pietra vulcanica, pietra forte, granito, bronzo da sfiorare sul nero irruente di tre donne imbottite di impossibilità. Maestria di radica toscana, antico cromosoma di fiorentina genialità. "Giuliano Vangi è il più grande scultore italiano vivente" sottolinea Vittorio Sgarbi, presidente del Mart e ideatore della mostra, nel docufilm che racconta i novantun anni del maestro, di cui ottantacinque dedicati alla scultura. "Considero il mio studio una bottega di felicità nel progettare futuro, lavoro tutti i giorni, cercando radice e innovazione delle mie ispirazioni", conclude Vangi. Lo conferma Giulia vestita di verde, scolpita in marmo verde giada, bianco, onice e oro. Per conoscerla, salire al secondo piano del Mart, la mostra chiude il 9 ottobre.