La narrazione del sacro, nella spiritualità cristiano-cattolica, è stata nei secoli affidata all’iconografia. Scene bibliche decorano magnificamente volte e arcate delle nostre chiese. Immagini e simboli, ancor prima che per il loro valoro artistico, erano progettati in vista di una pedagogia dei popoli, un’istruzione agli eventi maggiori della storia sacra. La loro maestosità comunica ancora oggi le vette assolute del divino e l’umana protensione verso di esse.
Una vertigine. Narrazioni, quelle bibliche, che hanno attraversato i secoli e si sono adattate agli uomini e alle donne di ogni tempo, perché la lingua sacra è nel tempo, è scheggia di infinito che, come il Cristo, si incarna nella temporalità dei viventi e parla la loro lingua. Lo stesso accade nella rappresentazione iconografica. Le opere del pittore Giuseppe Gianì che fanno parte del ciclo “Piena di Luce” sono un esempio straordinario di un sacro scheggiato nel tempo.
Attraverso i pannelli di Gianì vediamo la Madre di Dio crescere e modificarsi, esprime gioia, presenza assoluta, cura, turbamento, dolore, sin dal momento della sua iniziazione amorosa: “Mi sono aperta come un libro davanti a Te,/ un libro pieno di misure terrestri,/ un libro pieno di fiori della giovinezza, Signore… / E ad un tratto Tu sei comparso,/ per me, che godevo la tenerezza della mia adolescenza,/ per me, che mi sentivo giovane/ e pronta a tutte le battaglie della vita,/ per me, che avevo lo scudo della parola”.
Ancora una volta, la narrazione di Giuseppe Gianì offre alla Parola l’occasione di scheggiarsi nel tempo che viviamo. La sua Maria accorre da Elisabetta, in pieno spirito di sorellanza: si assomigliano le due donne, lo stesso mantello ricopre le loro spalle, i colori sono quelli della terra che le rende madri e consente loro, a partire dalla loro condizione, una comprensione immediata, una solidarietà ancestrale. Com’è bella Maria quando stringe al petto il figlio appena nato, raccolto in posizione fetale. Sulla propria pelle adagia il figlio, al seno, al cuore.
Di fronte al destino del Cristo, Maria rimane superba nella sua contrizione, sa che il dolore è del figlio, lei deve essere radice e tronco, sostegno, vicinanza consapevole e silenziosa, sacerdotessa del suo dolore. Una madre sa, riconosce il turbamento e il dolore nel figlio, e rimane. Sanguina, però, Maria, il panneggio rosso della sua veste, al pari di quella del figlio, è materno che sanguina, è ventre squarciato che restituisce alla terra il suo dolore. Si dispera per il dolore radicale, il dolore assoluto della morte del figlio. Un dolore che sconvolge l’anima e stravolge il volto.
L’anima è questa cosa senza tempo che si agita dentro di noi e l’anima di Maria si è lasciata declinare da ogni umano sentire ed è rimasta viva. Con lo slancio del volo, Maria conquista il suo cielo. Ricomposta nella sua giovinezza, siede sul trono, alle porte del cielo. È la donna completa. L’eterno femminile. Demetra-Kore-Persefone-Maia. Madre, fanciulla, regina, sacerdotessa. Il suo grembo è gravido, è maternità perenne, creazione continua, generatrice instancabile di grazia. “Salutate in lei/ la porta del sorriso beato/ e l’onniscienza futura:/ ella ha previsto tutto/ perché pur non avendo radici/ Maria è la sola radice del mondo”. Grazie al Maestro Giuseppe Gianì per questa restituzione di un sacro che al va al cuore dell’umano.